QUEL CADAVERE DEL PILOTA DEL MIG LIBICO TENUTO IN FRIGO
Ustica, un cadavere nel frigo "Mig libico cadde il giorno della strage, il pilota surgelato per tre settimane" Secondo l' ordinanza del giudice Priore la data della morte sarebbe stata spostata
Oggi D' Alema chiedera' chiarezza a Solana ROMA - Con ogni probabilita' , le vittime nei cieli di Ustica non sono state ottantuno, come i passeggeri del Dc9 Itavia, ma ottantadue. L' ottantaduesima vittima e' il pilota del famoso
Mig libico caduto sulla Sila nell' estate ' 80. Un morto tenuto in frigorifero in un bancone bar dell' aereoporto militare di Gioia del Colle per tre settimane e tirato fuori, come un cadavere "fresco", una volta che ogni traccia di collegamento
tra la vicenda del Mig e la battaglia aerea che aveva coinvolto l' aereo italiano di linea, era stata cancellata. Ufficialmente il velivolo libico risulta precipitato nelle boscaglie di Castelsilano il 18 luglio di quell' anno, ma stando alle
risultanze delle indagini compiute dal giudice Rosario Priore, quel pilota e' in realta' un uomo che mori' due volte. La sua morte fisica, secondo Priore, sarebbe avvenuta proprio quand' era ai comandi dell' aereo militare precipitato perche'
colpito nella battaglia aerea contro aerei alleati (americani? francesi?) avvenuta sopra Ustica. La morte anagrafica del pilota invece sarebbe stata "spostata" in avanti di ventun giorni. Quelle tre settimane, secondo l' ordinanza di Priore, furono necessarie
per mettere in scena un complesso "depistaggio". Insomma furono il tempo che ci volle per eliminare le tracce radar della presenza del Mig nei cieli dell' Italia meridionale la sera del 27 giugno (i tracciati in parte spariscono, in parte vengono camuffati,
l' aereo viene classificato come friendly, cioe' aereo alleato), per manipolare le testimonianze dei militari, per imporre il silenzio, per permettere sopralluoghi dell' allora capo stazione della Cia a Roma. Un depistaggio che, secondo l' accusa che ha mandato
a giudizio i due alti ufficiali, sarebbe stato organizzato dal generale Zeno Tascio e dall' ex uomo del Sismi Pasquale Notarnicola. Un' operazione in grande stile, come quella che si vede in certi film di spionaggio, quando i fatti e le circostanze
vengono smontati e rimontati secondo un copione precostituito. Non senza dei particolari noir degni del romanzo di Thomas Harris, Hannibal. Perche' i problemi pratici da superare mentre si organizzava il depistaggio non devono essere stati pochi. Che fare,
ad esempio, nel frattempo, del morto? Anche del transitorio destino del cadavere, naturalmente, sono rimasti, a tanti anni di distanza, solo indizi. Ma, secondo Priore, tracce molto significative. Che cosa ha scoperto il giudice? Che probabilmente il libico
fu tenuto in ghiacciaia presso il comando dell' aeroporto militare di Gioia del Colle: dopo quell' uso improprio, naturalmente, il bancone bar fu dichiarato "fuori uso" e dismesso proprio il 17 luglio dell' 80, il giorno prima della ricomparsa
del cadavere sulla scena di Castelsilano. La controprova dell' uso del frigo - bar sta, secondo il giudice, nell' esito sconcertante di due successive perizie necroscopiche che vennero effettuate sui resti del pilota. La prima dava atto della
morte recente, visto l' eccellente stato di conservazione del cadavere. Ma pochi giorni dopo lo spettacolo che quel corpo presento' ai periti fu davvero sconvolgente. La decomposizione che venne constatata aveva raggiunto livelli devastanti e impensabili in
un cosi' breve lasso di tempo (cervello, fegato e milza, ormai liquidi, la pelle della mano che si e' sfilata come un guanto, insetti che erano ovunque). Eppure nonostante tutti gli accorgimenti messi in atto per il depistaggio, le testimonianze di cinque
cittadini comuni, un avvocato, un ginecologo di Cosenza, un contadino, un piccolo imprenditore, un funzionario del ministero delle Finanze, hanno convinto il giudice dell' effettiva esistenza di un' intensa attivita' di aerei militari sulla Sila, la sera della
strage di Ustica. Pero' ancora non tutto e' stato ancora chiarito, soprattutto sul "livello superiore", politico, interno e internazionale, che avallo' "il muro di gomma". Per questo, oggi, il presidente del Consiglio Massimo D'
Alema chiedera' al segretario generale della Nato Javier Solana, a Roma per il cinquantesimo anniversario dell' Alleanza, che la Nato faccia chiarezza. Athos De Luca, capogruppo dei verdi in Commissione Stragi commenta: "La solidarieta' tra i Paesi della Nato
non deve compromettere la ricerca della verita' sulle stragi di vite umane e sul diritto dei rispettivi Paesi di avere giustizia e verita". M. Antonietta Calabro'
Calabro' Maria Antonietta Corriere della Sera
9 Sett. 1999
IL RITROVAMENTO IN SILA DEL MIG 23
Il 18 Luglio 1980 un MIG-23MS dell'Aeronautica Militare Libica venne ritrovato sui monti della Sila in zona Timpa delle Magare, nell'attuale comune di Castelsilano Crotonese (allora in provincia di Catanzaro), dagli abitanti del posto.
Il fatto è stato posto dal Giudice Istruttore in relazione con gli avvenimenti riguardanti il DC-9 Itavia in quanto, secondo alcune prove indiziarie e le testimonianze depositate ed agli atti di diversi militari in servizio in quel periodo, tra le quali quelle del caporale Filippo Di Benedetto e dei suoi commilitoni del battaglione "Sila", del 67º battaglione Bersaglieri "Persano" e del 244º battaglione fanteria "Cosenza", sostenenti di aver effettuato servizi di sorveglianza al MiG-23 non a luglio, bensì a fine giugno 1980, suggerirebbero che questo aereo non sia caduto il giorno in cui fu dichiarato il ritrovamento dalle forze dell'ordine (18 luglio), ma che addirittura fosse precipitato la stessa sera della strage, il 27 giugno 1980, e che pertanto il caccia libico potesse essere stato protagonista, diretto od indiretto, della caduta dell'aereo civile italiano. Inoltre le testimonianze depositate dei sottufficiali De Giosa Nicola e Linguanti Giulio, affermanti che "La fusoliera del MiG era foracchiata come se fosse stata mitragliata... erano sette od otto fori da 20 mm... ritenni che si trattasse di colpi di cannoncino...", sono un ulteriore conferma che quel MiG cadde in circostanze non ancora chiare, ma in ogni caso diverse da quanto ufficialmente dichiarato.
In un articolo dal titolo Battaglia aerea poi la tragedia, pubblicato dal quotidiano L'ora il 12 Febbraio 1992, il giornalista Nino Tilotta, parlava di uno scontro aereo avvenuto tra due caccia F14 - Tomcat della US Navy ed un MIG 23 Libico. Secondo questa versione il SISMI, all'epoca comandato dal generale Giuseppe Santovito, avrebbe avvertito gli aviatori libici di un progetto di attaccare sul Mar Tirreno l'aereo nel quale Gheddafi andava in Unione Sovietica. Sembra che i progettisti di questa azione di guerra siano da ricercare tra quelli indicati dall'ammiraglio Martini, e cioè tra francesi e americani. In seguito alla spiata del SISMI l'aereo che trasportava Gheddafi, arrivato su Malta, tornò indietro, mentre altri aerei libici proseguivano la rotta.
Furono infatti accertate in quel periodo penetrazioni dello spazio aereo italiano da parte di aerei militari libici. Tali azioni erano dovute alla necessità da parte dell'Aeronautica Militare Libica, di trasferire i vari aerei da combattimento da e per la Jugoslavia , nelle cui basi veniva assicurata la manutenzione ai diversi MIG e Sukoi di fabbricazione sovietica, presenti in gran quantità nell'aviazione del colonnello Gheddafi.
Accadde la sera del 27 giugno 1980. La carcassa del “caccia” venne tuttavia fatta ritrovare il 18 luglio. Quel giorno una telefonata allertò i carabinieri di Caccuri della presenza dei resti di un aereo tra le montagne di Castelsilano. Scattò l’allarme. In poche ore confluirono in località Timpa delle Magare carabinieri, poliziotti, reparti dell’Esercito e dell’Aereonautica. L’intera area interessata dalle operazioni di recupero venne inibita all’accesso di curiosi e giornalisti. Nello spazio di cinque chilometri intorno al velivolo nessun civile potè mettere piede.
Racconta Diego Minuti, all’epoca cronista di Gazzetta del Sud: «Arrivammo da Catanzaro nella zona dell’incidente a bordo della mia auto insieme con il fotografo del giornale, Pasquale Rotundo. Una pattuglia dei carabinieri c’impedì, però, di proseguire fino all’area in cui c’era la carcassa del velivolo. “Non potete passare – ci dissero – l’intero settore montano è inibito ai civili”. Tornammo perciò indietro, fingendo di osservare il divieto che c’era stato imposto.
La testimonianza di questo giornalista ci consente d’insinuarci tra le pieghe d’un giallo internazionale infarcito di contraddizioni, errori di valutazione e risposte mancate. Pressato dall’opinione pubblica, infatti, il ministero della Difesa diffuse dopo poche ore un comunicato ufficiale.
Nel documento si riferiva che era stata ritrovata “la carcassa di un Mig 23 monoposto di fabbricazione sovietica, sprovvisto di armamento e serbatoi supplementari, in dotazione alle forze aree libiche. Nella cabina è stato rinvenuto il cadavere di un pilota, di carnagione scura e dell’apparente età di trent’anni”. Stop.
Muammar Gheddafi, dall’altra parte del Mediterraneo, rispose con un comunicato ufficiale del suo governo. “Il nostro pilota era in volo d’addestramento e a causa di un improvviso collasso ha perso il controllo dell’aereo, precipitando”. Gli inquirenti diedero subito la sensazione di voler chiudere in fretta il caso. Il corpo del pilota, inspiegabilmente, senza autopsia, venne ricomposto e sepolto nel piccolo cimitero di Castelsilano.
Paradossalmente, l’autopsia sarà eseguita solo cinque giorni dopo, con la riesumazione del cadavere. Giunsero nel frattempo in Italia tre esperti del governo tripolitano e il corpo della vittima venne restituito alle autorità d’Oltremare con i resti del velivolo. L’esame necroscopico, compiuto in ritardo e svolto dai professori Erasmo Rondanelli e Anselmo Zurlo, fece risalire il decesso del pilota al giorno della presunta caduta.
Uno dei due medici-legali, tuttavia, otto anni dopo dichiarò che il 23 luglio del 1980 aveva cambiato opinione sulla data della morte dell’aviere, manifestando in una memoria aggiuntiva la convinzione che il libico fosse spirato almeno 15-20 giorni prima del ritrovamento. Pure l’ufficiale sanitario di Castelsilano, tra i primi ad accorrere sul posto, aveva descritto la salma come in apparente avanzato stato di decomposizione.
Una contadina della zona, tuttavia, riferì di aver udito uno scoppio il 18 luglio, senza però vedere materialmente il “caccia” schiantarsi contro il costone della montagna. Molti abitanti confermarono indirettamente l’assunto. Altri invece parlarono di una prolungata presenza in zona dell’esercito (mai verificata) prima dello schianto.
Versioni, dunque, contrastanti. Cui si aggiunse, la testimonianza di un avvocato di Catanzaro, Enrico Brogneri, autore poi di un volume sulla strage di Ustica. Il professionista (interrogato, in tempi diversi, dai giudici Bucarelli e Priore) dichiarò di aver visto sul cielo della sua città, la sera del 27 giugno 1980, un aereo da guerra sfrecciare a bassissima quota, sfiorando quasi le case.
La circostanza, apparentemente insignificante, consentirà poi, unitamente ad altri elementi, di ipotizzare un collegamento tra l’abbattimento del Dc9 dell’Itavia, in volo tra Bologna e Palermo, avvenuto quello stesso giorno sul cielo di Ustica, e il Mig rinvenuto in Sila. Tutte le autorità, nel luglio del 1980, si guardarono bene dall’accreditare uno scenario del genere.
"di Arcangelo Badolati dalla Gazzetta del Sud.it"
Intervista al Dott. Anselmo Zurlo che eseguì l'autopsia sul corpo del pilota Libico del Mig-23
"sono stato considerato uno sprovveduto e un bugiardo, ma ora basta" Cosi Anselmo Zurlo, cardiologo dell'ospedale S.Giovanni di Dio dell'ospedale di Crotone comincia la sua intervista all'Europeo, aggiungendo altri misteri ai già moltissimi che hanno segnato la tragedia aerea dell'Itavia. Tutto cominciò il 23 Luglio 1980 a 26 giorni di distanza dall'ecatombe di Ustica. Quel giorno, alle otto del mattino affiancato da Erasmo Rondanelli, 51 anni primario anatomo-patologo dello stesso ospedale di Crotone, Zurlo si trovò davanti a un cadavere mutilato e oramai sfatto dai vermi nel cimitero di Castelsilano, un paesino calabrese a ridosso della Sila. Il corpo era di un pilota libico caduto ufficialmente cinque giorni prima col suo Mig-23 nel vallone delle Magare e nessuno poteva immaginare che potesse in qualche modo essere messo in relazione all'incidente di Ustica. Invece, rivela Zurlo, c'era più di una ragione per pensarlo alla luce di quello che capitò a me e al mio collega Rondanelli. Fu il Procuratore della Repubblica di Crotone, Francesco Brancaccio, a convocarmi in compagnia del mio collega. Successe che dopo aver trovato in mezzo ai rottami del Mig il cadavere sfracellato del pilota, la salma era stata fatta sepellire dall'ufficiale sanitario del posto, nel cimitero di Castelsilano senza una vera e propria autopsia. Poi, quando la notizia del Mig era arrivata a Tripoli, l'agenzia Libica "Iana" aveva fatto sapere che il pilota era stato stroncato da un infarto mentre sorvolava una zona di cielo extraterritoriale. Fu allora deciso di riesumare il cadavere del pilota per stabilire, se possibile, ora e giorno della morte e se il decesso era avvenuto prima dell'impatto al al suolo a causa di un ictus cerebrale. E dal momento che io sono cardiologo e Rondanelli patologo, fummo chiamati per stabilire tutto ciò. Fu impossibile dire se il pilota avesse avuto un infarto o un ictus perchè nell'impatto contro la montagna alcuni monconi di costole rotte avevano perforato il parenchima polmonare e il pericardio con rottura traumatica dei due ventricoli, mentre l'encefalo ea totalmente assente. Ma una cosa fu subito chiara: lo stato di marciume di quel cadavere. Il corpo era in necrosi gassosa e presentava numerosi nidi di larve e perciò era impossibile far risalire la morte del pilota a cinque giorni prima, ma almeno a tre settimane prima.
"in sostanza l'esame del cadavere faceva pensare con una certa sicurezza che il pilota e aereo non erano caduti il 18 luglio 1980, ma molti giorni prima. Per esempio il 27 giugno, cioè nella stessa data dello sterminio di Ustica ?"
"Direi di si"
"Perchè allora lei e il suo collega avete scritto e sottoscritto che la morte del pilota libico risaliva al 18 luglio e non a molti, molti giorni prima?"
Fu un errore grossolano, lo ammetto. Ma debbo dire a chiare lettere che quella valutazione ci fu in un certo senso sollecitata. Lo sbaglio infatti fu quello di aver ceduto alle insistenze del giudice Brancaccio e di aver ammesso che la morte potesse risalire a cinque giorni prima del ritrovamento del cadavere, anche se nel referto, stilato la sera stessa dell'autopsia, il dubbio ci tormentò tanto da correggere, all'ultimo momento, la parola "avanzato" in "avanzatissimo" stato di decomposizione. Tutavia una circostanza importante è sfuggita a molti. Io e Rondanelli facemmo precedere la presunta data della morte del pilota daalla parola "anamnesteticamente". Un termine che ha un significato preciso e non solo in campo medico. Vuol dire che si afferma la tal cosa in base a quello che racconta il malato o, quando il malato non c'è, i parenti, i conoscenti o chi ricorda.
"Lei vuol dire che il giorno della morte del pilota fu stabilito non sulla base di considerazioni scientifiche ma dando credito alle voci di chi avrebbe visto cadere l'aereo o da chi aveva sentito dire? "
Esatto. Tant'è vero che due giorni dopo io e il collega Rondanelli scrivemmo un supplemento di perizia nel quale afefermavamo che la morte del pilota risaliva almeno a una ventina di giorni prima.
"E questo supplemento di perizia dove è finito? "
Sparito. Rondanelli afferma di averlo portato di persona alla procura di Crotone ma non sa precisare perchè non ricorda, dopo tanto tempo, nelle mani di chi lo consegnò.
"Ma a voi è rimasta almeno in mano una copia?"
Purtroppo no. Fu la nostra seconda leggerezza. Le copie furono trattenute dalla cancelleria. Del resto anche dalla prima perizia nessuno aveva pensato di darcene una copia. Va però rivelata una cosa: anche se oggi dicono che quel supplemento di perizia non è mai esistito, accadde un episodio molto strano a riprova della nostra verità. Qualcuno insomma aveva avuto subito notizia del nostro documento e se ne era molto preoccupato.
"Chi? "
Uno strano personaggio, forse un agente dei servizi segreti, che piombò a Crotone il 26 Luglio cioè a distanza di 24 ore dalla consegna del nostro supplemento di perizia.
"Lei come lo sa? "
Perchè lo vidi in carne ed ossa e gli parlai. Lo vide separatamente anche Rondanelli e con tutti e due l'uomo cercà di farci cambiare idea.
"Dove incontrò questo signore' "
Alle otto di sera nella caserma dei Carabinieri dove ero stato pregato molto insistentamente di andare. Fu il Capitano Gaetano Inzolia, allora comandante del gruppo Carabinieri della città, a chiamarmi per telefono. Disse che dovevo correre subitoda lui perchè c'era un signore arrivato apposta da Roma con un aereo speciale che doveva parlarmi.
"E cosa accadde? "
Il Capitano Inzolia usci dal suo ufficio e mi lasciò solo con l'uomo arrivato da Roma. Era in borghese. Senza alcuna presentazione e con fare gentile ma deciso, tirò fuori dalla tasca una foto polaroid. Era una foto di un cadavere. Ma il cadavere non era quello mezzo marcio che avevo visto sul tavolo di pietra del cimitero di Castelisilano, Appariva molto più fresco e con un macchione di sangue rosso-vermiglio che fuoriusciva dal corpo. L'uomo mi fece notare con insistenza quest'ultimo particolare per significare che io e Rondanelli sbagliavamo nel sostenere la retrodatazione della morte del pilota libico, che ufficialmente tutti sostenevano avvenuta, come si sa, il 18 Luglio 1980. In risposta alle sue insistenze dissi che il cadavere della fotografia era certamente quello di un uomo appena morto e aggiunsi con molta franchezza che poteva anche non riguardare il pilota libico.
"Vuol dire che il cadavere della fotografia non era quello del pilota libico? "
Il dubbio lo ebbi e ce l'ho ancora.
"Come finì l'incontro? "
Quando l'uomo di Roma si rese conto che il suo messaggio non aveva fatto centro, mi salutò con molto distacco. Del resto non potevo dargli ragione. Mi ricordavo ancora benissimo di un particolare che mi aveva molto colpito durante l'autopsia al cimitero di Castelsilano. Davanti a me, un maresciallo dei Carabinieri di Catanzaro procedette al prelievo della cute delle dita di entrambi le mani del cadavere per gli esami dattiloscopici. Ebbene, pelle e unghie del cadavere si sfilarono come un guanto rovesciato, a dimostrazione che quel corpo era in fase di colliquazione. Un fenomeno che non avviene dopo cinque giorni dalla morte, ma.....
Il racconto del proffessor Zurlo finisce qui e quello che accadde dopo i fatti che ha rivelato, non è meno inquietante. Nel giugno del 1988 il giudice di Roma, Giorgio Santacroce, titolare dell'inchiesta sulla strage di Ustica, vuole sapere qualcosa di piu preciso sulla caduta del Mig libico e chiede una serie di atti istruttori a Elio Costa, sostituto procuratore a Crotone. Costa allora convoca Zurlo. Ma il 6 Luglio, una settimana prima di essere ascoltato, Zurlo esce dall'ospedale e tre uomini col volto coperto lo feriscono al collo e alla testa a colpi di bastone. Quando si rimette in piedi e va dal magistrato, al quale racconta l'incontro avuto nella caserma dei Carabinieri con lo strano personaggio arrivato da Roma, trova una sorpresa. In un confronto diretto, il Capitano Inzolia cade dalle nuvole e non ricorda più nulla.
Zurlo allora, ricordando che il misterioso signore era arrivato a Crotone con un aereo speciale, chiede un controllo dei piani di volo dell'aeroporto. Ma i documenti non esistevano più. Un incendio aveva carbonizzato la torre di controllo con tutto l'archivio. Infine la mazzata definitiva. Nel marzo 1989 Giovanni Staglianò, giudice istruttore di Crotone, archivia l'inchiesta sul Mig libico caduto nella Sila e liquida Zurlo e Rondanelli nel modo seguente << O hanno preso un abbaglio in occasione della prima risposta, oppure l'hanno preso successivamente. In ogni caso dimostrano di non essere affidabili e credibili>>
Ma dopo la presenza del Mig libico nella maledetta sera di Ustica, le conclusioni del giudice Staglianò andrebbero forse riviste. << Speriamo>> dice Zurlo << che un giorno mi si dia ragione. Qualcuno allora potrebbe essere chiamato a rispondere di giudizi affrettati e di aver sospettato che alla base del comportamento mio e di Rondanelli ci sarebbero stati interessi personali e perfino malafede>>
"dall'Europeo 15/14 Aprile 1990"
il supertestimone nella sala operativa: Ecco cosa successe con il Mig libico, i due Mirage e il Tomcat
“Fu all’inizio degli anni Ottanta. Una domenica in cui giocava l’Italia. Partii da Roma armato, con una scorta armata, e questo documento classificato segretissimo nella cartella. Una relazione completa sulla strage di Ustica che doveva essere controfirmata dal ministro della Difesa Giovanni Spadolini e trasmessa urgentemente al presidente del Consiglio Bettino Craxi. Arrivai alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, da lì una gazzella dei carabinieri mi portò nella sua residenza a Pian dei Giullari. Spadolini mi ricevette in biblioteca, indossava una vestaglia da camera rossa. Mi conosceva bene, lavoravo già da qualche anno nella sua segretaria particolare, mi chiamava per nome. Gli consegnai il documento. Lui si sedette, cominciò a leggere. Erano sette o otto pagine: il resoconto dettagliato di ciò che era accaduto quella sera, con allegate alcune carte del Sismi, il servizio segreto militare. Si parlava di due Mirage, di un Tomcat, si parlava del Mig. Mi resi subito conto che quello che c’era scritto non gli piaceva, scuoteva la testa. Finché a un certo punto sbattè un pugno sulla scrivania. Era infuriato. Ricordati, Giuseppe - mi disse - non c’è cosa più schifosa di quando i generali si mettono a fare i politici. Ma alla fine, controvoglia, firmò”.
Il maresciallo Giuseppe Dioguardi oggi ha 53 anni, ha prestato servizio in Aeronautica fino al 2008. Alla scadenza del suo nullaosta di segretezza, il Cosmic, che è il livello più alto, è stato ascoltato da Maria Monteleone ed Erminio Amelio, i due magistrati della Procura di Roma che indagano sulla strage di Ustica. Parte dell’interrogatorio è ancora secretato, ma il maresciallo ha accettato lo stesso di raccontare quello che sa. E sa molto. Nei 33 anni che ha trascorso nell’arma azzurra e alla Difesa, in posizioni di estrema responsabilità e delicatezza, un filo rosso lo ha tenuto sempre agganciato, spesso da supertestimone, a questa storia. Fin da quella sera del 27 giugno 1980, quando si trovò nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Esattamente negli istanti in cui il DC9 Itavia veniva abbattuto nel cielo di Ustica.
Come mai quella sera lei era nella sala operativa della Prima Regione aerea?
“Per puro caso, ero andato a trovare un collega di turno”.
Quindi, seguì tutto in diretta?
“Sì, fin dalla prima comunicazione della base radar di Monte Venda”.
Che cosa sentì?
“Rimbalzavano
notizie confuse. Non si capiva cosa era successo, dicevano che un aereo era stato abbattuto. C’era molta tensione. E appena l’ufficiale di servizio comunicò quello che stava succedendo al comandante della Regiona aerea, che all’epoca
era il generale Mura, il Centro operativo dello Stato Maggiore da Roma alzò il livello d’allarme al grado più alto in tutte le basi italiane”.
Cosa
che non accade per un semplice incidente aereo.
“No. Quel tipo d’allarme scatta solo se c’è un pericolo concreto per la sicurezza del Paese. Che so, un attacco a una base o una minaccia
dall’esterno al nostro spazio aereo. Per capirci, lo stesso allarme del giorno dei missili libici su Lampedusa o della notte di Sigonella”.
Dalla prima comunicazione
all’allarme quanto tempo trascorse?
“In quella situazione, la sala operativa della Regione aerea aveva un tempo massimo di cinque minuti per avvertire Roma. Faccia lei i conti”.
Che altro fece il generale Mura?
“Chiese a chi non era in servizio di uscire subito dalla sala. Poi la mattina dopo, al circolo,
mi chiamò e mi disse che bisognava stare sereni e tranquilli, che purtroppo erano situazioni che potevano capitare e che stavano cercando di capire chi aveva provocato cosa”.
Le
comunicazioni che ascoltò erano telefoniche?
“Certo. Ma dallo Stato Maggiore di Roma arrivarono anche messaggi classificati che vennero decrittati e letti”.
Cerchi di essere più preciso.
“Non posso, i dettagli sono nelle parti dell’interrogatorio secretate dai magistrati. Diciamo che la confusione
era provocata dal fatto che si sapeva che c’erano dei caccia in volo ma non la nazionalità, né la provenienza o la direzione. E comunque, un allarme c’era già prima dell’abbattimento…”.
Chi lo aveva lanciato?
“I due piloti che poi sono morti nell’incidente delle Frecce tricolori a Ramstein nel 1986, Nutarelli e Naldini. Loro hanno
incrociato il DC9 tra Bologna e Firenze e hanno visto quello che si muoveva intorno al velivolo civile… loro sono rientrati alla base di Grosseto segnalando il pericolo con la formula da manuale, attivando il microfono senza parlare. E tutte le sale
operative delle tre regioni aeree, che sono collegate da una linea diretta, stavano cercando di capire. La fase più concitata è andata avanti per circa un’ora e mezza e l’allarme massimo è stato tolto solo dopo sette, otto
ore”.
I radaristi militari di Ciampino hanno dichiarato negli interrogatori di aver visto dei caccia americani, hanno addirittura chiamato l’ambasciata per sapere
qualcosa da loro.
“Nella relazione del Sismi controfirmata da Spadolini si parlava di due Mirage, e all’epoca quei caccia li avevano solo i francesi, e di un Tomcat, che era un caccia imbarcato
sulle portaerei americane”.
Possibile che nessuno dei nostri radar, ad eccezione di Ciampino, li avesse visti e identificati?
“Mettiamola in questo modo. Quella sera c’erano dei siti radar aperti, che nel giro di due o tre anni da quell’evento sono stati chiusi, ufficialmente per un riordino interno. Uno addirittura dopo sei mesi. E chi ha indagato nella
prima fase di questa inchiesta, o non ha saputo cercare i nastri radar giusti o non li ha voluti trovare”.
Ma quella notte, dopo la confusione, si capì come erano
andate le cose.
“Le dico di più. La mattina dopo, al circolo ufficiali, parlavano tutti dell’abbattimento. E siccome era un sabato, chi stava lì c’era perché aveva lavorato
tutta la notte nella sala operativa o nei centri dove passavano le comunicazioni classificate”.
Si parlava di aerei italiani coinvolti, a parte l’F-104 di Nutarelli
e Naldini?
“No. E il loro coinvolgimento fu molto preciso. Vedere un caccia militare sotto la pancia di un aereo civile non è una cosa normale”.
Se per giunta non è italiano…
“Il modello non era italiano. E quando non ci sono nemmeno coccarde che lo identifichino, fai fatica a non sganciare il pulsante
d’allarme”.
Si fa fatica anche a non credere che almeno una base radar lo abbia visto entrare nel nostro spazio aereo.
“Probabilmente, lo hanno visto”.
E cancellato…
“Probabilmente”.
Ma nessuno lo ha mai confessato.
“Gliel’ho detto. Se eri un militare e avevi a che fare con un documento o un’informazione a qualunque livello
di segretezza, da riservato a segretissimo a top secret che sia per quelli Nato, e le rivelavi rischiavi fino a venti anni di reclusione. Ora la norma è cambiata. Ma allora era così. E guardi, non sono state le minacce o gli ordini dei superiori,
che pure ci sono stati, a tappare la bocca ai militari. Era la paura di andare in galera. Ma la gente sapeva, e le carte c’erano”.
E sono sparite per sempre, queste
carte?
“Io ho spiegato ai giudici che ogni documento ha una vita. Molti sono stati distrutti ma molti esistono ancora. Bisogna saperli cercare. Prenda il giudice Priore. E’ arrivato a cinque centimetri
dalla verità, ma non ha trovato la pistola fumante. I suoi finanzieri non sono potuti entrare nelle segreterie speciali o nelle stanze o nei depositi dove c’erano le carte classificate, perché ci vogliono dei permessi che un magistrato
non può dare. E se ci fossero entrati, non avrebbero saputo cosa cercare e come. Un registro di protocollo classificato non si distrugge mai nella vita. Ma bisogna trovarlo e poi saperlo leggere. E adesso prenda me. Dopo Milano sono stato otto anni
a Roma nella segreteria particolare di sei ministri della Difesa, poi a Bari alla Terza regione aerea, sempre col nullaosta di sicurezza Cosmic che al mio livello in Italia avevamo solo in ventiquattro. Priore ha chiesto di interrogare i componenti della segreteria
speciale ma il mio nome non è mai stato inserito nell’elenco che gli ha fornito l’Aeronautica. Sarà un caso?”.
Torniamo a Spadolini, a quella
relazione segreta e alla sua sfuriata.
“Era fuori di sé. Prima di firmare fece anche una telefonata, a cui però io non ho assistito”.
Ce l’aveva coi generali perché cercavano di giustificare politicamente quello che era successo?
“C’era un tentativo di girare le carte. D’altra
parte anche De Michelis parlò di carte sopra il tavolo e carte sotto il tavolo. All’epoca i generali di squadra aerea erano solo tredici e ciascuno di loro aveva una linea telefonica diretta con un apparecchio cripitato che comunicava con le altre
dodici, una specie di teleconferenza via Skype ante litteram. Qualunque decisione dovevano prendere e presero, lo fecero insieme, in tempo reale”.
Mai nessuno fuori dal
coro?
“Il generale Moneta Caglio. Era un giorno di Pasqua. Vado a Roma a discutere questa faccenda, mi disse. Prese la macchina, andò a casa del capo di stato maggiore, ci fu una lite violentissima
e lo misero in pensione con un anno d’anticipo”.
Non condivideva la linea sulla strage di Ustica?
“Esatto.
Chi ha gestito questa storia, chi era in determinati posti di comando e controllo, ha fatto carriere inimmaginabili. Generali che sono diventati capi di stato maggiore e sottufficiali che hanno avuto trasferimenti lampo in sedi dove c’era una lista d’attesa
di quindici anni. Chi ha imbrogliato non è stata l’Aeronautica. È stato un numero ben preciso e ristretto di persone dentro l’Aeronautica. Gli altri ci hanno solo rimesso”.
Oppure sono morti.
“Oppure. L’ultimo in ordine di tempo è stato il generale Scarpa. Tre anni fa”.
Trovato nella sua casa di Bari con la faccia tumefatta e una ferita alla testa.
“Esatto”.
Aveva
avuto a che fare con questa storia?
“Diciamo che ci si era trovato vicino”.
Quando i piloti Nutarelli e Naldini
sono morti nell’incidente di Ramstein, nessuno di voi si è fatto qualche domanda?
“Come devo risponderle?”.
Non
lo so. Ha fatto un sospiro.
“Ecco. Ma mica è l’unico fatto strano”.
Per esempio?
“Nessuno si chiede mai nulla sul povero generale Giorgieri”.
È stato ucciso dalle Brigate Rosse.
“Era uno dei tredici generali di squadra, che erano tutti collegati fra loro. Era anche uno dei pochi che non aveva la scorta”.
In quelle
pagine che hanno fatto infuriare Spadolini si parlava anche del Mig.
“Era collegato”.
Perché anni dopo,
terminata la sua audizione in Commissione stragi, disse: “Scoprite il giallo del Mig e troverete la verità su Ustica”.
“E’ così. Glielo confermo
al cento per cento”.
Di quella relazione non si è saputo mai nulla. Sparita.
“Finchè sono rimasto
al ministero della Difesa a Palazzo Baracchini, una copia di quella relazione c’è sempre stata. E so da amici comuni che fu conservata per molto tempo anche dopo il 1988. Quando fui trasferito alla segreteria del comandante della Terza regione
aerea a Bari e poi alla segreteria speciale del comandante di regione, anche nelle loro casseforti c’erano documenti su Ustica. Noi potevamo vederli, leggerli, avevamo il nullaosta giusto”.
Noi chi, scusi?
“Noi della segreteria speciale, eravamo in otto e non dipendevamo da nessuno. La sera del 27 giugno, due di noi si trovavano a Monte Scuro, sulla Sila. Dove poi furono
rimandati il 18 luglio a vedere ufficialmente i resti del Mig che avevano già visto segretamente il 27 giugno”.
Quella sera in cielo il Mig se l’erano perso
o no?
(pausa) “Non lo so”.
Però seppero subito dove era caduto.
(pausa) “Non lo so”.
I magistrati le hanno chiesto perché ha aspettato tutti questi anni per raccontare quello che sa?
“Certo. Lo dico anche a lei. Primo. Perché nel 2010 è scaduto il mio nullaosta di sicurezza e mi sono sentito finalmente una persona libera. Secondo. Perché in tutti questi anni, ogni volta che mi parlavano di Ustica mi sono
sentito una merda”.
Andrea Purgatori, L'Huffington Post | Pubblicato: 23/10/2013
Il racconto del Maresciallo Giulio Linguanti
Bari, 27 giu 2013 – (www.huffingtonpost.it/)
“Quando sarà, io me ne voglio andare con la coscienza a posto. Perché se lassù incontrerò anche uno solo di quegli ottantuno poveretti che stavano sull’aereo, non voglio che mi sputi in faccia”. Il maresciallo Giulio Linguanti ha 76 anni e una memoria testarda che non perde un colpo. Nel 1980 era in forza al reparto del Sios Aeronautica nell’aeroporto di Bari. E a Bari lo incontro oggi, nella sua casa, davanti a un caffè. Lui con le sue carte piene di appunti, io con un registratore.
È un uomo d’un pezzo, Linguante. Con la vita segnata da un evento che per un mese, in due riprese, l’ha portato sulle montagne della Sila a organizzare il recupero del Mig23 libico che, a giudicare dai vermi lunghi cinque centimetri che avevano fatto il nido nel cadavere già putrefatto del pilota, non precipitò il giorno del suo ritrovamento ufficiale (18 luglio) ma almeno tre settimane prima. Cioè il 27 giugno, la stessa sera dell’abbattimento del DC9 Itavia. “Risolvete il giallo del Mig23 e avrete trovato la chiave per scoprire la verità su Ustica”, disse nel 1982 Giovanni Spadolini. Un giallo nel quale il maresciallo del Sios ha una parte da protagonista.
Prima di quell’estate, i libici Linguante li aveva già visti volare e pure atterrare in tranquillità sul territorio italiano. “Una volta ci ritrovammo una intera squadriglia di elicotteri di Gheddafi sull’aeroporto di Bari. Mandammo gli equipaggi in mensa e scattammo più foto che potevamo”. Non fu l’unico episodio. Il 22 giugno del 1980, mentre i capi di stato e di governo scendevano dai loro aerei sull’aeroporto di Tessera per raggiungere Venezia e partecipare al summit dell’allora G7 presieduto da Francesco Cossiga, poco distante erano parcheggiati dei C-130 dell’aviazione della Jamahiria araba libica che noi italiani stavamo trasformando in segreto da cargo per uso civile in aerei da supporto militare. Gli stessi C-130 venduti a Tripoli con una mediazione in pieno embargo organizzata da Billy Carter, fratello del presidente americano Jimmy Carter, che grazie anche a quello scandalo passato alla storia come “Billygate” si giocò la rielezione per un secondo mandato alla casa Bianca. Per non parlare dei piloti che Gheddafi mandava in segreto ad addestrarsi a Galatina, alla scuola di volo dell’Aeronautica. O dei Mig che sempre a Galatina i nostri piloti videro atterrare più di una volta, prima e dopo la strage di Ustica. Ma non si poteva dire. Anzi, bisognava negarlo. Gheddafi a quel tempo era il nemico numero uno dell’Occidente. Di americani e francesi, soprattutto. Mentre noi ci flirtavamo, un po’ per minaccia e molto per interesse. Tanto da salvargli la vita parecchie volte. Forse pure quella notte in cui avrebbe dovuto fare la fine che toccò al DC9 Itavia. La stessa notte e nello stesso cielo in cui volò quel pilota libico ai comandi del Mig23 che forse era di scorta al colonnello, che sfuggì al missile che colpì l’aereo di linea italiano ma poi venne inseguito e precipitò sulla Sila. Un mistero nel mistero di quella strage.
Trentatre anni dopo, il maresciallo Linguante ricorda parole, facce. Tutto. “Arrivai sulla Sila la notte del 18 luglio, insieme a un altro sottufficiale di Bari. È caduto un aereo libico e a Roma vogliono sapere, ci dissero. Era tardi, andammo a dormire in una caserma dei carabinieri. La mattina dopo, mentre preparavo la macchina per raggiungere Castelsilano, arrivò un appuntato che aveva appena partecipato alla sepoltura del pilota del Mig23. Era stravolto, ci mancava poco che vomitasse. Puzza che non ci si può stare vicino, diceva. Strano, pensai. Io ne ho visti di morti. E anche se fa caldo, dopo appena un giorno nessun cadavere è ridotto a quel modo”.
Il Mig23 si era schiantato contro un costone di roccia a strapiombo su una pietraia. Per raggiungerlo, il maresciallo camminò per chilometri in mezzo a un bosco. “Da lontano pareva un camion ribaltato, con le ruote in aria. Era grosso e praticamente intatto. Tanto che quando dopo un mese lo portarono via, dovettero spezzare le ali. Altra cosa strana, perché un caccia che va dritto per dritto contro un muro di roccia normalmente finisce in pezzi. Poi vidi dei buchi sulla coda, fori di cannoncino. Tornando in macchina verso il paese, lo dissi al colonnello Somaini. Li ha visti anche lei? Lui girò la testa vago, guardò il cielo e fece: mah, chissà da che parte è arrivato ‘st’aereo… E capii subito che di quella faccenda dei fori era meglio non parlare”.
Non era un’allucinazione. Anni dopo, il giudice istruttore Rosario Priore riuscì a trovare una serie di testimoni che la sera del 27 giugno 1980 si trovavano in punti diversi della Calabria, lungo una rotta ideale che da Ustica andava su Lamezia e fino a Castelsilano. Esattamente sul punto del ritrovamento del Mig23. Più d’uno raccontò di aver visto due caccia che ne inseguivano un terzo sparando con il cannoncino. Sui rottami i fori erano parecchi, una raffica. Gli abbiamo sparato noi nel poligono della Snia a Colleferro per testare la resistenza della lamiera, dichiarò l’Aeronautica. Che per questa giustificazione meriterebbe un posto nella top ten del ridicolo che affiora a tratti in questa strage. Pari a quella con cui il portavoce dell’Arma azzurra, generale Mangani, cercava di sostenere la tesi del cedimento strutturale: prima di entrare nella flotta Itavia, il DC9 trasportava pesce alle Hawaii, e siccome il pesce sta in mare e nel mare c’è il sale e il sale corrode, per la proprietà transitiva l’aereo era marcio.
Intorno alla carcassa del Mig23, Linguante organizzava, accompagnava, trasportava. “C’erano rottami sparsi ovunque. Anche se appena arrivammo la cloche era già sparita, e chissà chi e quando se l’era portata via”. Già, chi e quando? Ma soprattutto come? Dall’alto del costone di roccia era impossibile scendere. Dal basso, si dovette attendere che il Genio aprisse appositamente uno sterrato. Faceva caldo ed era facile perdersi. Solo Linguante e pochi altri sapevano orientarsi nel bosco. Il presidente della commissione d’inchiesta, colonnello Ferracuti, che poi certificò come il pilota del caccia sarebbe arrivato da Bengasi alla Sila per colpa di un infarto dopo aver innestato l’autopilota e anni dopo sarebbe diventato capo di stato maggiore dell’Aeronautica, una mattina pretese di fare tutto da solo e s’incamminò a testa alta. “Sbucò dal bosco dopo tre ore, con la tuta fradicia di sudore, assetato, stremato”.
Altra storia quella dell’Americano spedito di corsa a ispezionare il relitto, che alcuni ritengono fosse il responsabile di una squadriglia di Mig “donati” da Sadat agli Stati Uniti dopo l’abbandono del padrinato sovietico. E altri pensano fosse il capostazione della Cia a Roma: Duane “Dewey” Clarridge, l’uomo che durante lo scandalo Iran-Contras (armi a Teheran in cambio di denaro per i controrivoluzionari in Nicaragua) stava per mandare a casa Reagan con un impeachment e fu graziato da George Bush senior il giorno prima di lasciare la Casa Bianca, l’uomo che secondo il Washington Post non lavorava per gli interessi degli Stati Uniti ma “solo per quelli della Cia”. In una intervista che gli avevo fatto a bruciapelo, Clarridge aveva messo in crisi la versione del governo italiano sulla caduta del Mig23 sostenendo di aver mandato i suoi uomini sulla Sila il 14 luglio, quattro giorni prima del ritrovamento ufficiale. Lo confermò anche a Priore, durante una rogatoria a Washington, ma ritrattò tutto nel processo contro i generali dell’Aeronautica accusati per depistaggio e poi assolti. Mostro a Linguante la foto di Clarridge sull’Iphone. “È lui. L’ho portato io a vedere l’aereo. È rimasto un paio d’ore. Gli avevo organizzato anche un panino e una bottiglia d’acqua. Ha solo bevuto, il panino me lo sono mangiato io alla sua salute”.
Il maresciallo era diventato uno dei perni intorno a cui ruotava l’operazione di recupero del Mig23. Accompagnava generali italiani, ufficiali libici, controllava i soldati piazzati a circondare la zona. Il giorno dell’autopsia, fu scelto come staffetta per consegnare a un colonnello piombato da Roma in elicottero alcuni resti prelevati dal cadavere del pilota. “Mi diedero un barattolo pieno di formalina con dentro un dito e il pene di quel poveretto e un fumogeno per segnalare all’elicottero dove sarebbe dovuto atterrare. Mi dissero che servivano per le impronte digitali e per accertare se fosse circonciso. La cosa mi faceva un po’ schifo, trovai un pezzo di carta geografica e la arrotolai intorno al barattolo, accesi il fumogeno e per poco non prendeva fuoco il campo. L’elicottero arrivò, io consegnai il barattolo e ripartirono subito”. Ed è bene sapere che di quei resti, come di tutti i reperti organici, di tutte le foto scattate, di tutti gli effetti personali del pilota non è mai più stato ritrovato nulla. Svaniti dal giorno dell’autopsia nel cono d’ombra del grande mistero di Ustica.
“Dopo un mese passato in quel posto, mi fu chiaro che quell’aereo non era caduto il giorno in cui avevano detto di averlo ritrovato. Era caduto molto prima, la stessa sera della strage di Ustica, era stato colpito e tutto quello che vedevo davanti ai miei occhi era solo una messinscena. Io sono fiero di avere servito l’Aeronautica, ma mi vergogno delle bugie che sono state dette da alcuni miei superiori. Ho una coscienza e me la devo tenere pulita fino alla fine. Per me e per i miei figli. Costi quel che costi”, dice Giulio Linguante. Al processo contro i generali, gli avvocati della difesa hanno cercato in tutti i modi di delegittimarlo, metterlo in difficoltà, sgretolare il suo racconto. Ma il maresciallo non ha fatto neanche mezzo passo indietro.
Di lui, il giudice istruttore Priore ha scritto: “Questo teste appare uno dei rarissimi che riferiscono fatti e notizie, mostrando ottima memoria e completo distacco all’Arma di appartenenza. Delle sue dichiarazioni dovrà tenersi conto in più occasioni, dalle considerazioni sullo stato del cadavere a quelle sul relitto”. Peccato che cadavere e relitto siano spariti. Non le bugie. Ma nemmeno l’onestà di qualche militare che ancora crede in una verità possibile sulla strage di Ustica.
Dal portale: http://www.huffingtonpost.it/